Mastribiscottai

Silvana Giovannini

“Se dovessi stabilire una data di quando è iniziato tutto questo, potrei dire che già a 15 anni facevo volontariato al don Guanella. Mi piaceva molto.
Poi certo, la nascita di Marco ha sancito il mio ingresso nella disabilità.
Marco ha subito un’asfissia prenatale: è stato ricoverato un mese e mezzo. Quando è stato dimesso, i medici non mi avevano detto che aveva avuto lesioni cerebrali.
Va tutto bene, signora.
Per me era il primo figlio: io non avevo nessuna esperienza con i bambini, quindi mi affidavo ai medici.
Però, non so se per un sesto senso, non so se perché una madre lo sa d’istinto, mi sono subito resa conto che c’era qualcosa che non andava, perché Marco non mi guardava mai, mi fissava sempre e solo in un punto.
Lo dicevo ai medici e loro mi rispondevano che ero troppo stressata e che la soluzione era di non guardarlo troppo.
Verso i 5 mesi però Marco non cercava di acchiappare le cose, come fanno i bambini.
Per fortuna – o anche stavolta per istinto – appena uscito dalla rianimazione, avevo cominciato a stimolarlo, perché avevo letto che i bambini che non avevano avuto il contatto con la mamma, potevano avere delle ripercussioni psicologiche.
Così io e mio marito abbiamo preso delle ciotole e le abbiamo riempite una di borotalco, un’altra di riso, un’altra ancora di pasta e una di pangrattato, tutte con consistenze diverse e facevamo 5 minuti sotto i piedini e 5 sotto le manine.
Mi piace pensare che questa cosa l’abbia aiutato.
Poi verso i 6/7 mesi abbiamo iniziato a fare riabilitazione, sempre preventiva, perché per i medici andava ancora tutto bene.
A otto mesi finalmente il pediatra disse: “facciamo una risonanza magnetica”. All’epoca, 35 anni fa, le risonanze magnetiche erano oggetti misteriosi.
La diagnosi ovviamente fu infausta: Marco non avrebbe camminato, non avrebbe parlato, sarebbe stato un vegetale.
Io non so per quanto tempo ho pianto, forse un anno intero, tutte le notti.
Piangevo sempre: devo dire grazie a mio marito che mi ha veramente sostenuto.
Poi una mattina mi sono svegliata e mi sono detta: ma che sei scema? Non devi piangere, devi aiutare tuo figlio.
Così l’ho mandato all’asilo nido a 17 mesi contro il parere della neuropsichiatra.
Io non sono una che non ha più lavorato perché aveva il figlio disabile.
Ho preso i sei mesi di aspettativa, un mese di ferie e poi sono tornata a lavorare. Qualche mese è stato con mia madre, però volevo che Marco fosse stimolato.
L’ho iscritto al nido che ancora non camminava.
Dopo un mese, Marco ha camminato.
E da lì abbiamo cominciato a lavorare.
Mi sono fatta subito nominare nel Comitato di gestione dell’asilo nido, perché non c’era ancora la legge 104: era tutto lasciato alla buona volontà delle educatrici.
Come rappresentante di famiglia, cominciai subito a martellare il Comune.
A quel tempo avevo 28 anni.
Poi mi sono accorta che altre mamme erano rimaste intrappolate nel loro dolore, come lo ero stata io nel primo anno di vita di Marco.
Quindi ho deciso di mettermi in gioco anche per gli altri: ho costituito un “comitato di genitori utenti disabili minori ASL RME”.
Abbiamo fatto un sacco di lotte: per la fisioterapia, per la scuola, per il sostegno, i centri estivi. Non c’era niente allora.
È così che è cominciata.
Fino a che arriviamo al 2003, quando incontro altri genitori – poi fondatori della nostra associazione – in via Portuense 227, dove era la sede di una cooperativa sociale, che portava avanti progetti di autonomia sociale per ragazzi con disabilità cognitiva. Ci siamo conosciuti lì, ma ognuno di noi veniva da una parte diversa di Roma. Nel 2006 purtroppo muore Ylenia, una delle ragazze che frequentava il centro. Avevamo già deciso di costituire un’associazione che avesse un’idea diversa della disabilità. Volevamo che i nostri ragazzi avessero pari dignità sociale e che non fossero considerati solo utenti da assistere.
Nasce così Associazione Ylenia E Gli Amici Speciali Onlus.
All’inizio eravamo tutti volontari, ci siamo proprio inventati le cose. Mi ricordo che il primo progetto in assoluto è stato il soggiorno estivo per i ragazzi, perché volevano passare le vacanze insieme, e non divisi con le asl di appartenenza.
Lavoravamo di notte, il sabato, la domenica, durante le feste.
Ora mi dedico quasi completamente all’associazione, che è diventata un ente gestore.
All’interno coabitano diverse anime: quella che vuole essere di aiuto affinché tutte le persone vedano realizzati i propri diritti; quella che vuole dare una possibilità di realizzazione ai ragazzi attraverso il biscottificio; quella che vuole rendere autonomi i ragazzi dalle famiglie attraverso il progetto residenziale.
In tutti questi anni ho imparato a non fermarmi di fronte a “non è previsto”.
Vado avanti, avendo chiara la mia meta: voglio vedere realizzato il desiderio di mio figlio e di tutti gli altri ragazzi, di sentirsi utili, di lavorare e di vivere insieme.”

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